Due ragazzi, amici di scuola dalle elementari fino al liceo si scoprono amanti in una notte passata in tenda al mare di Roma.
Essere omosessuali è il segreto che ciascuno di loro, in modo diverso, alberga nella sua vita,
sino a quando il segreto non è svelato e accolto dalle loro famiglie, dalle loro mogli.
“Non ti accorgi se ami una persona se non ci fai l’amore”...
recita uno dei due amanti in uno dei momenti nei quali lo splendore è davanti ai loro occhi.
Una storia, forse, sull’essere accoglienti con se stessi.
Accettarsi per quello che si è, a prescindere dai nostri traumi, dalle motivazioni che nei secoli la gente ha prodotto per qualificare come malattia un certo tipo di amore quasi che le regole del piacere e dell’amore, potessero uscire direttamente come emanazione dell’ordine morale.
La ragazza perduta
Salvatore Mannuzzu
Einaudi 2011
Una coppia stanca, nella quale la noia di un’esistenza da sempre agiata e di un amore anziano gioca a celare anche il sentimento che resta, si ritrova a leggere assieme il racconto che lui le ha scritto per il compleanno.
La storia di una ragazza che li riporta entrambi ai freddi inverni di trent’anni prima.
L’epoca nella quale si erano conosciuti e avevano deciso di vivere assieme nella grande casa vicino al mare.
Zezi, la ragazza perduta è un ‘piccola squaw’ che non conosce l’affetto e si butta nella passione per cercarlo.
Bellissime pagine in un italiano oramai arcaico che ritraggono, in punta di piedi, tematiche fuori dal tempo con la grazia della poesia.
il confine di Bonetti
Giovanni Floris
Feltrinelli 2014
letto a settembre 2014
La storia profonda e leggera di un ragazzo che vive la sua adolescenza
negli anni 80 e si trova, oggi, sperso nella vita che ha costruito.
Succede un fattaccio e si trova, con alcuni dei vecchi amici, a Rebibbia.
Stare in cella, parlare col giudice, è un occasione per ripensare a cosa è stato.
C’è un filo rosso che sembra nascere e cucire assieme i fatti.
Filo legato al suo senso di malessere e fallimento.
La fine del romanzo, come una curva a gomito, svela l’altra faccia del reale.
Un volto positivo che ci offre le chiavi per leggere un’altra storia, un’altra vita...non solo nostra.
Stanno tutti bene tranne me
Luisa Brancaccio
Einaudi 2014
letto a settembre 2014
Storie parallele che si intrecciano parlando del dolore, di come lo si vive di quanto e come lo si supera.
Siamo tutti diversi eppure, in alcuni momenti della nostra vita troviamo persone che ci sono molto vicine, che sono simili a noi in quel tratto di vita o che, anche differenti, ci attraggono come una calamita.
Il dolore unisce e separa...poi, quando ci abbiamo fatto i conti possiamo dire come dice la protagonista.
Resistenza al Trattamento e
Autorità del Paziente
Eric M.Plakun (a cura di)
Ananke Edizioni
Recensione del Dott. Francesco Comelli
Nonostante i tempi stretti dalla nostra vita che indurrebbero a veloci letture e men che
meno a leggere recensioni, l'attraversamento dell'esperienza dei cari colleghi del
Riggs induce a rinunciare alla velocità ed alla logica che vi è sottesa, per immergersi
nel piacere del contatto con esperienze vive e meritorie proprio perché coraggiose. Il
coraggio di chi esplora nuove aree del setting, in controtendenza rispetto al
conformismo scientifico erede della crisi delle idee e della fiducia nella mente, senza
peraltro illudersi che si possa “guarire dalla vita”.
Recensire il libro curato da Eric M.Plakun e proposto nella sua veste fruibile al
pubblico Italiano da alcuni colleghi che condividono la sfida allo stereotipo delle
cure, come Correale, Corulli, Biaggini, non è pertanto un mero esercizio
intellettualistico, bensì un modo per trasmettere alcuni elementi oggi fondamentali
per lavorare con pensieri innovativi ed essenziali nel lavoro privato, pubblico,
comunitario o in generale psichiatrico e psicoanalitico. Sullo sfondo si percepisce
anche il crogiuolo che ha formato molti specialisti italiani in grado di lavorare
mediante i gruppi, nella Scuola della Sapienza, soprattutto nella presenza affettiva e
professionale di Claudio Neri e di Stefania Marinelli.
Un’altra radice che si coglie è quella degli psichiatri psicodinamici americani
(ricordiamo almeno Searles, Arieti, Fromm Reichmann, Pao, Kernberg e altri, legati
alle esperienze delle comunità di Main in Gran Bretagna), che ha proposto modelli
clinici e di lavoro che trovano qui uno sviluppo estensivo, a partire dal rapporto fra
cultura sociale e modi di ammalare o di curare, lasciando intravedere una critica
netta verso il sistema con cui si ha a che fare nelle cure dei pazienti e in particolare di
quelli con complessità particolari.
L’edizione italiana è curata da Marco Biaggini e dialoga con diverse esperienze di
qualità, ad esempio in Italia col lavoro dei colleghi della Comunità Il Porto.
Va subito detto che leggere nelle bibliografie (il testo fra l’altro è un importante
riferimento per la bibliografia della psichiatria psicoanalitica nelle istituzioni) i nomi
che ci accompagnano idealmente nelle giornate di studio e di lavoro è un conforto ed
un piacere che è spesso raro di fronte al riduzionismo statistico o biologico o anche
burocratico.
Gli autori sono parte dell'Austen Riggs Center che nasce ai primi del 900, che è un
dato significativo considerando il valore della storia nelle istituzioni: infatti quest’
esperienza nasce dal Dr. Austen Fox Riggs, medico internista di New York, che
cercò, dopo la sua carriera professionale un luogo tranquillo e sano per la cura della
tubercolosi di cui soffriva.
Egli nel tempo sviluppò una serie crescente di iniziative terapeutiche per curare le
malattie psicosomatiche, intuendo il forte legame fra malattie del corpo e della mente.
Va detto che l’attuale evoluzione istituzionale risente, credo più o meno
consapevolmente, della complessità del curare le persone senza scindere corpo e
mente, rimanendo ancorati al concetto di cure che riguardano i livelli diffiicli della
mente non disgiunti dalla storia del proprio corpo e dei traumi ad esso connessi.
La capacità di essere “aperti” di questo gruppo di lavoro si nota, peraltro in USA, nel
fatto che i pazienti hanno un ruolo attivo nel condividere principi naturali di cura e di
compartecipazione coi curanti ai progetti terapeutici, senza “lucchetti o serrature”
(Elmendorf e Parish). Ciò favorisce una rappresentazione, nel palcoscenico della
comunità, di una “scena teatrale” cui contribuiscono pazienti e operatori in
partnership. La visibilità, tema caro a Duez in Europa, diventa, così come la
pensabilità, una funzione metariflessiva che avvicina colleghi americani ed europei
nello sforzo di lavorare implicitamente o esplicitamente mediante i gruppi.
I pazienti ri-dotati di una loro autorità diventano così coprotagonisti e ciò sembra fare
del Riggs un luogo ressitente alla cultura dominante che prevede altro approccio, in
cui si collude più facilmente con il tentativo di non pensare o di anestetizzare ogni
aspetto della soggettività.
Ciò subito ci mostra come il processo storico di un’istituzione rimasta fedele a molti
aspetti fondativi, aiuti a comprendere la sua attualità, i suoi traumi e le sue
processualità, come elementi che hanno potuto diventare materia di crescita
esperienziale per l’ intero gruppo di operatori e saldandosi cosi con i pensieri di Kaes
e Correale sull’ istituzione come processo.
Ma usando il termine “operatori” non si intende un elemento standard, bensì il Riggs
pone la questione, prima ancora del paziente resistente, dell’operatore resistente,
ossia di quegli operatori o gruppi o insiemi di persone che possono aderire a
mitologie comunitarie difensive, ad esempio nel frequente timore che il paziente
manipoli, (in Italia si dice “ci è o ci fa”), oppure abbracciare lo stile delle comunità
tipo “club vacanze” (ossia luoghi di intrattenimento per non pensare o fare reali
esperienze), oppure ancora comunità vincolate a convenzioni e ricavanti ingenti
somme di denaro e quindi come luoghi di gestione del potere.
Per questi motivi il lavoro dell’équipe (Krikorian, Fowler) monitora almeno i
seguenti aspetti:
- esercitare una funzione di holding;
- valutare che l’équipe non diventi un oggetto di lotte di potere o che reagisca in tal
modo sulla base di condivisioni controtransferali, anche per la presenza di un setting
“aperto” che espone molto l’operatore;
- valutare che l’équipe non sia solo un meccanismo capace di gestire l’ansia senza
esplorarne il significato.
Questa équipe del Riggs ha quindi in toto trasferito su carta questa raccolta di metodi
ed esperienze empiricamente costruite (ovviamente su un common ground che li
caratterizza), che esprimono una prassi viva e coraggiosa in rapporto al mondo delle
idee sperimentali: questo testo ha anche lo scopo di mostrare cosa essi realmente
fanno nella pratica in tanti anni di lavoro del gruppo e di gruppo, nelle loro giornate.
Ciò riflette lo spirito di ricerca presente in questo Istituto e nel testo stesso, come
disponibilità a “fare lutti” da certezze o comprendendo l’impossibilità di affrontare il
lutto oggi in contesti sociali dove il postitivismo biologico o il riduzionismo
farmacologico allontanano un rapporto più corretto con il dubbio, il lutto e le
separatezze.
Molte di queste pagine possono porre la questione dei mezzi che abbiamo: partiamo
dall’estrema povertà di mezzi che abbiamo spesso a disposizione per affrontare il
grave disturbo mentale/esistenziale per trovare strategie eticamente corrette ma
coraggiose come quelle descritte nel testo.
Il libro riflette pertanto non solo le terapie o le pratiche, ma le questioni sul dopo –
trattamento, sugli enigmi esistenziali cui i nostri pazienti andranno incontro dopo le
terapie fatte, con una certa necessità di andare oltre al senso comune nello strutturare
dei setting di ricerca.
Ciò si traduce nella possibilità di interloquire con la propria ricerca di fronte a
certezze “incancrenite”, come d’altronde accade sempre a chi deve lavorare coi
pazienti gravi o richiedenti modificazioni dei setting o una riflessione su di essi.
Shapiro, decano degli autori, pur appartenente all’establishment psicoanalitico, si
caratterizza da anni come interprete del mondo dei pazienti “resistenti” ad ogni tipo
di cura e pertanto riflettendo e proponendo un vertice che implica un ripensamento
delle pratiche tradizionali che molti terapeuti o analisti faticano a compiere.
Ma, seguendo le riflessioni di Devereux, potremmo domandarci se essi sono pazienti
resistenti alla società? Questi pazienti cioè esprimono in un certo modo una distanza
dagli strumenti che la società ha approntato per loro, e quindi esprimono in qualche
modo una critica, una diversità, una protesta oppure sono i prodotti più conformi a
ciò che la società propone?
In altre parole i pazienti non curabili, non inseribili nei contesti previsti dalla società,
costituirebbero un problema di resistenza agli strumenti che la società ha previsto ?
Cosa si intende quindi per paziente resistente? Shapiro nel testo parla di pazienti che,
nonostante l’idea che tutto oggi sia più controllabile da tecnologia e scienza grazie
agli “specialismi”, hanno subìto gravi traumatismi infantili senza poter trasformarli in
elementi meno dannosi ed anzi adattandosi ad essi come parte non sana ma propria
della vita psichica. Vi è pure nel testo un riferimento anche alle componenti iatrogene
di questa resistenza, ed alla necessità di approcci molto differenziati e condivisi in
équipe relativi al paziente stesso ed alle sue caratteristiche esistenziali. Già questo è
un concetto che vale piu riflessioni, tra cui la domanda se essi non siano resistenti
anche ad una modalità della società di curare, incluse le standardizzazioni della
psichiatria e direi anche spesso ahimè di quegli psicoanalisti che non hanno trattato il
paziente grave.
In pratica il fallimento di molte riabilitazioni, ossia delle terapie decise quasi sempre
dai curanti o da gruppi di curanti rinuncerebbero a promuovere le autorità dei pazienti
o a valutare gli elementi esistenziali del paziente e della sua storia o il suo desiderio
di partecipazione culturale.
Questi elementi aprono a mio avviso ad un campo che per la psicoanalisi è stato un
campo difficile, quello dei gruppi, dove nei gruppi si pensa al conduttore come ad un
co-pensatore e un co-vivente (mi si perdoni il neologismo), aderente al campo
bipersonale o gruppale che si sprigiona dalla messa in gioco degli elementi piu
terapeutici presenti nel campo.
Pertanto la mente del curante nel Riggs è certamente valutata come un oggetto di
studio e di riflessione non secondario, a partire per esempio dal nostro modo essere
esposti al trauma come operatori ed alla traumaticità dei nostri pazienti.
Questa competenza sui contenitori dei nostri colleghi americani si è tradotta nella
storia del Riggs come una possibilità di intervento anche a livello dei contenitori
familiari, sociali e financo politici. Dunque vediamo l’ampio spettro di azione di
questo gruppo anche da queste ampiezze, proponendo una classe di colleghi clinici
non certo avulsi dalla vita sociale e dagli studi sui contenitori.
In questo senso si coglie l’attenzione allo studio dell’istituzione la cui comprensione
è ben differenziata da quella dell’ apparato amministrativo di organizzazione, benchè
essi siano in collegamento fra loro.
Da una tale organizzazione del campo e del gruppo, si tenta di invitare le persone alla
ricerca del soggetto: l’invito all’assunzione di responsabilità è un gesto di
riconoscimento dell’autorità del paziente come persona che può assumere un ruolo
importante nel comunicare ai curanti il proprio valore esistenziale primario,
facendolo diventare il proprio oggetto interno di crescita.
Come si comprende certamente il controcanto che sviluppa un progetto del genere è
verso la cosiddetta evidence based medicine, come si nota nei fili rossi sottostanti o
evidenti del primo capitolo (Fowler, Plakun, Shapiro), dove ci si domanda, senza
dirlo, cos’è in fondo la guarigione, con un’ampia disamina della resistenza al
cambiamento, indispensabile per chi vuole consocere l’argomento. Fra i fattori
favorenti la resistenza alle cure certemente si notano la riduzione del funzionamento
sociale e la comorbidità, ma anche l’assenza di alternative al solo trattamento
farmacoterapico o alla frammentazione proposta dal modello medico odierno
(frammentazione del corpo , frammentazione degli organi etc), senza un’ integrazione
fra elementi medici puri, ad es., i farmaci, e gli elementi psicodinamici, ad es. l’uso
del transfert e controtransfert per dare voce a stati emotivi non ancora rappresentabili.
Fra i fatti più difficili di un setting comunitario “aperto” e coraggioso nel valorizzare
l’autorità del paziente, sembrano indicare gli Autori, ci sono gli acting out dei
pazienti che mettono a dura prova la tenuta di équipes e pazienti stessi. L’indicazione
che esprime il testo è quindi quella di una radice bipersonale degli acting out, e a
maggior ragione degli enactments, dove la radice intersoggettiva aiuta a comprendere
la mente degli operatori in esperienza di gruppo. L’interesse per il funzionamento
dell’operatore in condizioni di difficoltà viene in qualche modo considerata degna di
investigazione tanto quanto quella dei pazienti e ciò, sebbene in maniera non
invadente, costituisce un punto teorico di fondo del gruppo di lavoro, come nel caso
dell’analisi del caso W., dove gli elementi del terapeuta sono stati visti come co-
influenzanti lo sviluppo di importanti acting out del soggetto .
La perdita di spontaneità legata al riduzionismo biologico arriva, negli esempi dei
colleghi, ad assumere un valore vero e proprio di difesa. Il paziente annovererebbe
oggi le difese scientiste come effetto di forme socialmente in linea con la cultura
dominante. Parlare di sé da parte dei pazienti come esperti del DSM o di farmaci
sarebbe una difesa socialmente accettata dalla società biologica occidentale, ma il
compito nostro sarebbe invece quello di aiutare le persone a dialogare, anche magari
partendo dal linguaggio scientifico, verso linee di maggiore integrazione fra mente e
corpo.
Uno degli impliciti di questo sistema difensivo, sostengono gli Autori, è la non
rappresentazione delle aree di dolore o degli stati emotivi non “agganciabili” da
queste difese, cosi da lasciare il soggetto pieno di stati emotivi non elaborati e
potenzialmente pericolosi, come nel caso del suicidio, cui viene dato ampio risalto
(Plakun). Il fatto di ridurre cioè tutto a sintomi o farmaci o a comportamenti già
incasellati o comunque nell’ordine della prevedibilità, lascerebbe scoperte le aree non
inseribili, come quelle che non sono direttamente rappresentabili o non ancora
pensate.
Ecco dunque motivata una psicodinamica della farmacologia (Mintz, Belnap), che
richiede un lavoro attorno al farmaco o sulla modalità in cui il farmaco interviene
nella cura e nei sistemi difensivi .
In molti casi può essere cioè importante potersi non affidare in toto alle speranze
farmacologiche, anteponendo il significato della prescrizione sull’effetto desiderato.
Cioè a dire che va valutato il grado di consapevolezza e di scelta reciproca e
condivisa sul farmaco non tanto come morale politically correct, quanto come ricerca
di un rimedio che non aumenti le aree di inconsapevolezza o di illusione automatica.
Meglio spesso accontentarsi di effetti minori ma sostenibili, piuttosto che allearsi con
un’aspettativa anestetica che si aggiungerebbe alle anestesie (peraltro utili) nelle cure
del corpo. La mente in questi casi non sarebbe il corpo biologico, ma avrebbe uno
statuto differente. Oppure ancora vi sono casi in cui il miglioramento biologico e
sintomatologico non sia ancora sostenibile da una personalità poco in grado di
elaborare ‘cambiamenti troppo repentini.
Ciò stride con le famose Linee Guida che nel mondo anglosassone, e ormai anche da
noi, appaiono come una sorta di vademecum che riparerebbe da malpractice (vedi l’
aumento delle cause) o dal sentimento di esclusione dalla società scientifica per gli
psichiatri che non le applicano. Il contributo è pertanto ancora più meritorio
avvenendo nella madrepatria delle linee guida.
Il Riggs fornisce quindi un’alternativa alla evidence based medicine tout court,
sostenendo che gestire, controllare e dirigere le cure dei pazienti mediante linee
guida corrisponderebbe ad un solo pensiero statistico, ma soprattutto ad una
passivizzazione dell’ autorità del paziente, che in tal modo non avrebbe più un'
autorità ed una attività nel pensare assieme ai terapeuti un priprio progetto di cura. Il
modello evidence baed si alleerebbe con aspetti sociali che tendono al non pensiero,
all’azione, in maniera speculare a molte difese dei pazienti stessi, evacuando i
problemi e non metabilizzandoli in comune. La complessità e l’unicità del soggetto
sarebbero elementi fondamentali per conoscere in un ambito dialogico le ambiguità
che proprio richiedono di non prendere decisioni immediate, certe, costruendo cosi a
partire dalle criticità un progetto sostenibile per la struttura ma anche per il paziente
stesso (Marilyn Charles).
Il coraggio dei colleghi del Riggs si estende allo studio dei fallimenti del nostro
lavoro, che è spesso un altro elemento che sfugge o che viene scotomizzato o ancora
che necessita di un gruppo di lavoro per poterlo contenerre e trasformare (Fromm,
Muller, Tillman).
Il trasfert negativo sembra uno degli elementi di difficile tolleranza in questi casi che
daranno esito a relativi o totali fallimenti. Ciò ci porta a pensare quanto sia necessario
trovare antidoti al narcisismo istituzionale e una via diretta per poter trattare nell’
équipe tali fenomeni. L’impostazione mette assieme i fenomeni specifici dell’ analisi
quali l’odio nel controtransfert, con la clinica gruppale, dove l’ odio può essere una
funzione da condividere nel gruppo operatori. Mi sembra un valore dei contributi
(Plakun) quello di pensare che il controtransfert negativo sia un importante
meccanismo di lavoro e di contatto con emozioni difficilmente integrabili o
socialmente poco belle, soprattutto nelle nostre società conformiste del think positive.
L’apertura ai sentimenti dell’analista e ai suoi tentativi di andare al di là del ruolo
professionale, senza perdere confini o funzioni, facendo capire la sua presenza umana
come parte del suo lavoro, paiono evidenti: cosi non solo il rapporto dell' analista con
l’odio o coi sentimenti non accettabili, ma la sua paura, le sue fragilità integrate con
le proprie parti più propositive e terapeutiche, risultano essere fattori vincenti con
pazienti difficili.
Una delle possibili vie trasformative per poter tutti lavorare con modalità di apertura
è quella che indica Fromm sul trauma. Egli propone una prospettiva di lettura del
trauma presente nell’identificaizone col genitore e più in generale nelle condizioni in
cui il genitore perde il proprio equilibrio per una vita trauamatica, affidandosi
inconsapevolemnte al figlio per recuperare un proprio benessere. Il figlio in tal modo
dovrà vivere quelle aree che il genitore evacua o non riesce a gestire. Propone di
considerare le aree di sincronizzazione inconscia genitori - figli sulla base dei pesi dei
traumi capaci di sconvolgere i funzionamenti familiari.
Si coglie nelle sue righe anche una ricerca nel setting, con alternanza fra sedute
familiari e sedute individuali, senza perdere di vista l’autorità del paziente che può
gradualmente trasformare l’io da oggetto del trauma all’io che acquista (mediante il
rapporto col proprio inconscio) le capacità per accogliere e curare il proprio trauma
ereditato o non integrato. In altre parole l'inconscio del soggetto come ricorda Freud
avrebbe la capacità di comprendere l'inconscio di un altro e ciò può passare da
meccanismo automatico di soccorso all'altro, a meccanismo di lavoro per la relazione
col curante – traduttore dei significanti.
Questa terzietà dell'analista traduttore (Muller) avviene nei casi in cui l’inconscio del
l’analista può interpretare e sognare questi scenari prima o con il paziente, offrendo
anche una terzietà nel senso di fare evolvere le tecniche di cura psicoanalitiche; cioè a
dire, porsi come terzi rispetto al rapporto con autori o con prassi strutturate per
immaginare i contenitori con cui analista e paziente hanno a che fare per lavorare
assieme. Si riflette cioè sullo spazio nuovo nella coppia come nel caso del “terzo” e la
terzietà, dove lo spazio terzo non è ancora l'altro e non è piu sé. Il terzo come oggetto
idealizzato trova quindi una forma più condivisa che diventa nel tempo un referente
per paziente e analista, così da passare da un terzo totale e di ognuno alla
condivisione del terzo stesso. Il terzo non pensato può essere pertanto un elemento
forcluso, non attraversato e neanche concepito. È nel suo concepimento come
generazione “di un nuovo bambino” che il terzo acquisisce lo spazio e il senso di un
luogo che verrà abitato, piuttosto che un luogo già abitato.
In questo senso il terzo non è un “non- me” o un “non te”, ma un non – noi,
possibilmente capace di mantenere una triangolazione verso l’ignoto in una coppia.
L’ignoto generatore, evolutivo, può contribuire quindi ad un ignoto pensabile rispetto
al consociuto non pensato di Bollas.
Nell’esperienza pratica ciò significa che la capacità di relazione può offrire una
alternativa all'uso indiscriminato di “cose” , ad esempio farmaci, volti a ostacolare la
relazione stessa o all'uso delle riabilitazioni come parcheggio, cosa che al Riggs non
avviene forse anche per la consapevolezza del lavoro con gli operatori,
differenziando normali esigenze tecniche o istituzionali dalle aree di collusione al non
pensare, non relegando cioè il lavoro ad un automatismo e ad un funzionamento di
massa.
Il testo quindi attraversa le aree di crisi della psichiatria per proporre possibili cure
mediante strumenti comunitari costruiti su un sapere psicoanalitico che ha dovuto
passare da un'immersione nel mondo contemporaneo per rafforzarsi, rinunciando a
sterili chiusure, ma anzi essendo cimentato col paziente grave e con la sua
residenzialità.
Si nota come le risorse dei gruppi siano primariamente le risorse del gruppo dei
curanti e del progetto che da anni, forse diremmo da generazoni, trasmette un sapere
alla équipe stessa del Riggs.
Ciò evolve anche in un lavoro attento sulle resistenze familiari ai trattamenti, viste
pertanto come un eleento importante che necessita di spazi adeguati e di holding per
rappresentarle (Schwartz). Trattiamo infatti “dinamite” pensando alle idee inconsce
trasmesse fra generazioni, non elaborate come traumi e capaci di ripresentarsi sotto
forma di psicopatologia individuale. Tale parte si ricollega con i lavori di molti
studiosi di cui credo importante ricordare le esperienze di Pellizzaro e Borgogno
Francesca a Milano.
In sostanza uno degli inviti nel libro è quello di non avere paura dei fallimenti o delle
difficoltà che emergono come resistenze ma partire proprio dal senso di questi atti,
acting out ed enactemnts per dotare di senso l'intero processo. Ciò appare come n
elemento in controtendenza rispetto alla cultura del “tutto positivo” che ammorba la
mente di adolescenti e di adulti, compresi gli operatori che non possono spesso
essere aiutati ad esprimere le aree di fragilità o di resistenza utile e costruttiva .
Facciamo pertanto circolare la domanda che si percepisce a livello di prassi: infatti
sempre più possiamo interrogarci intorno ai confini della mente individuale rispetto
alle organizzazioni emotive della massa ed ai fenomeni che sembrano attraversarli:
osando di più potremmo interrogarci su come il pensiero di massa abbia sostituito un
meccanismo di funzionamento della singola mente e dei suoi gruppi culturali.
Concludo con un'associazione di una giovane collega (Cappini) sui pazienti resistenti,
da lei sentiti tali perché, forse, non c’è un altro a cui bisogna resistere.
Francesco Comelli
Tiziano Bonazzi
Abraham Lincoln,
Un dramma americano
Il Mulino, 2016
Il libro di Tiziano Bonazzi parla di Abramo Lincoln, il Presidente americano della Guerra di Secessione tra nordisti e sudisti.
Lincoln era figlio di genitori calvinisti, ed era originario del Midwest; era un avvocato di provincia che militava nel partito Whig. Il partito Whig era un partito votato al progresso, e propugnava la libertà per ciascuno di migliorare la propria condizione.
Nell’America del diciannovesimo secolo molti calvinisti erano Whig, in quanto credevano nel cosiddetto self-developement: a ciascuno doveva essere data la possibilità di sviluppare la propria personalità e giungere all’autorealizzazione.
Quando Abramo Lincoln diventa Presidente degli Stati Uniti, egli si scontra subito con gli Stati schiavisti della Confederazione: Lincoln è infatti convinto come John Brown, altro abolizionista della schiavitù, che ogni uomo debba avere il diritto di sviluppare liberamente le proprie facoltà. Questo scontro lo porta a dividere l’Unione in due blocchi, ed a causare una guerra civile che porterà l’America all’abolizione definitiva dello schiavismo.
Lincoln era un seeker, cioè un laico che cercava Cristo, ed un progressista in politica: egli credeva nel positivo sviluppo della Storia, e nella possibilità di un approdo ad un mondo migliore.
Sandro
Carlo Castellaneta
Viaggio col padre
Mondadori, 1958
Il libro “Viaggio col padre” di Carlo Castellaneta, è un romanzo autobiografico che tratta di un dissidio tra padre e figlio. Il padre di Carlo Castellaneta è infatti un fascista che ammira Benito Mussolini; l’autore invece parteggia per Ottavio, un partigiano che abita nello stesso quartiere dei Castellaneta: la vicenda si svolge a Milano, nel quartiere di Lambrate (si possono riconoscere la via Bassini, via Valvassori, via Saccardo).
L’autore del libro ha anche un amico suo coetaneo, si chiama Milietto; il padre di Milietto è comunista e fa il barbiere.
Si può capire che le amicizie di Carlo Castellaneta sono molto diverse da quelle di suo padre, che invece frequenta persone compromesse col fascismo.
Caduto Mussolini il padre dell’autore perde il lavoro, perché in azienda sono note le sue simpatie per il Duce. Carlo Castellaneta invece ottiene un lavoro tramite il partigiano Ottavio. Si verifica così in famiglia la situazione anomala, per cui il padre è disoccupato ed il figlio lavora: al dissidio legato alla politica si aggiunge quindi anche quello di tipo famigliare.
Il padre dell’autore rimarrà sempre fascista, senza cambiare le sue idee. Solo nelle pagine finali del romanzo, ci si accorge che è possibile una riconciliazione tra padre e figlio. Questo può avvenire solo a patto che il padre, che nel frattempo aveva lasciato il tetto coniugale, ritorni in famiglia.
Il libro parla di un viaggio poiché i due, padre e figlio, compiono un viaggio in treno verso la Puglia (terra di origine dei Castellaneta); questo viaggio propizia la riconciliazione finale.
Sandro