L’emozionante racconto di Pietro Toffoli Marini dell’altra sera mi ha fatto venire in mente la famosa e controversa tesi di Hannah Arendt riguardo all’olocausto nazista, la cui sintesi sta nel concetto della Banalità del Male .
Secondo la scrittrice il male non è, come molti ritengono, qualcosa di mostruoso o demoniaco, termini che, seppure in negativo, rimandano a un che di scaltro, di potente e tutto sommato affascinante.
No, il male è qualcosa di molto più comune, normale, mediocre: il male è insomma banale.
Ciò non significa minimizzare i terribili atti commessi dal regime nazista (cosa di cui la Arendt fu accusata), ma comprendere ciò che spinge degli uomini ‘comuni’ a commettere quelle atrocità, trincerandosi dietro un semplice “ho solo eseguito gli ordini”.
La conclusione della scrittrice è che il male derivi dall’incapacità di pensare, di riflettere sulle proprie azioni che porta ad una cieca obbedienza alle regole. Solo in questo quadro infatti si può comprendere lo stupore di Eichmann, organizzatore dei trasferimenti degli ebrei verso i vari campi di concentramento, che al processo di Norimberga non riusciva a comprendere le accuse nei confronti di chi, come lui, in fondo si era occupato “soltanto di trasporti”.
E così pure è possibile osservare quel ‘male’ raccontato e vissuto da Pietro nella sua infanzia, come la ‘terribile normalità’ di un male fatto di tanti piccoli gesti quotidiani: il non poter avere nel lager un po’ di acqua e sapone per lavarsi, il gerarca nazista che prima di scappare sputa addosso a sua madre con lui piccolo in braccio, il non essere ben accolto al rientro in patria in quanto ‘figlio della guerra’, i vari “lo faccio solo per il tuo bene” della madre adottiva, addirittura il furto della sua merendina da parte della suora che doveva accudirlo. Ma se questo è il male, la banalità del male, allora che cos’è il bene?
Ragionando per opposti, seguendo la Arendt, si potrebbe forse parlare dell’Originalità de Bene .
Se il male consiste nel non pensare e nell’agire meccanicamente poiché “così fan tutti”, il bene sta – come diceva Kant – nell’avere il coraggio di usare la propria intelligenza, dando un senso personale ai fatti per poi decidere cosa fare.
E Pietro Toffoli Marini ha riflettuto molto sul suo passato: l’ha ricostruito attraverso documenti, l’ha raccontato nelle scuole, l’ha elaborato con diversi gruppi, l’ha ripescato prendendo molti treni ed infine è riuscito, così mi sembra, a lenire almeno in parte il suo dolore come un tempo, quando era solo un bambino impaurito, seppe fare una grande splendida luna.
"Possibile? Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprí le mani nere in quella chiarità d’argento.
Grande, placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna.
Sí, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è data mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna?
Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva.
Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca.
Eccola, eccola, eccola là, la Luna…
C’era la Luna! La Luna!
E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio
velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva piú paura, né si sentiva piú stanco, nella notte ora piena del suo stupore.
"
(Da “Ciaula scopre la luna”, Luigi Pirandello)
Danila
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