La Solitudine, parliamone

In un recente incontro tra gli amici del blog è emerso quanto diffuso sia questo sentimento e quanto pudore lo racchiuda.

Dichiarare di soffrire la solitudine sembra una forma di debolezza, un modo di non essere adeguati al contesto sociale, una denuncia di mancanza di risorse interiori. La confessione di un partecipante è stata invece accolta da tutti in forma liberatoria, quasi si fosse rotto un tabù. Voci concordi si sono unite a quell'intervento, sottolineando momenti concreti nei quali la solitudine è una cattiva compagnia.

 

Sicuramente, tra i possibili momenti di disagio, notiamo una sensazione di estraneità che ci prende quando mangiamo da soli in mezzo a muti sconosciuti.

Qualcuno ha scritto che mangiare da soli è qualcosa di umiliante, ma è anche eroico se pensiamo che va contro alla ritualità sociale che in tutti tempi ha associato al cibo i maggiori eventi della nostra vita, dalle nozze ai festeggiamenti delle varie ricorrenze.

Così anche un break lunch consumato senza interlocutori può diventare un momento di sofferenza nell’isolamento.

Dovremmo, invece, ribaltare la situazione: mangiare da soli non è un'umiliazione o una sconfitta, ma un momento di vittoria della nostra individualità che rifugge dal chiacchiericcio banale e pettegolo di un commensale non sempre gradito.

Quando mangiamo da soli siamo liberi anche in modo ribaldesco nei confronti degli altri e – pensate – possiamo anche mettere i gomiti sul tavolo, contro tutte le convenzioni!

 

Perdonatemi se ho un po’ “giocato” sul tema della solitudine. L'ho fatto prendendo spunto da una situazione frequente anche se marginale al problema, ben consapevole però di quanta sofferenza porti l’isolamento in molti momenti della vita, ad esempio in seguito ad una malattia, una depressione, un lutto.

Le pareti di casa sembrano diventare una prigione, ci manca un interlocutore con il quale instaurare un dialogo consolatorio e le nostre capacità interiori non sembrano in grado di rispondere alle aspettative. Qui vorrei passare la penna agli amici anche perché credo che la funzione di questo blog sia quella di raccogliere una coralità di voci che possano supportarsi vicendevolmente.

 

Voi che ne pensate? VI aspettiamo con una vostra riflessione.

 

Alla prossima puntata, dunque, sul tema della solitudine. 

 

Ettore

In un recente incontro tra gli amici del blog è emerso quanto diffuso sia questo sentimento e quanto pudore lo racchiuda.

Dichiarare di soffrire la solitudine sembra una forma di debolezza, un modo di non essere adeguati al contesto sociale, una denuncia di mancanza di risorse interiori. La confessione di un partecipante è stata invece accolta da tutti in forma liberatoria, quasi si fosse rotto un tabù. Voci concordi si sono unite a quell'intervento, sottolineando momenti concreti nei quali la solitudine è una cattiva compagnia.

 

Sicuramente, tra i possibili momenti di disagio, notiamo una sensazione di estraneità che ci prende quando mangiamo da soli in mezzo a muti sconosciuti.

Qualcuno ha scritto che mangiare da soli è qualcosa di umiliante, ma è anche eroico se pensiamo che va contro alla ritualità sociale che in tutti tempi ha associato al cibo i maggiori eventi della nostra vita, dalle nozze ai festeggiamenti delle varie ricorrenze.

Così anche un break lunch consumato senza interlocutori può diventare un momento di sofferenza nell’isolamento.

Dovremmo, invece, ribaltare la situazione: mangiare da soli non è un'umiliazione o una sconfitta, ma un momento di vittoria della nostra individualità che rifugge dal chiacchiericcio banale e pettegolo di un commensale non sempre gradito.

Quando mangiamo da soli siamo liberi anche in modo ribaldesco nei confronti degli altri e – pensate – possiamo anche mettere i gomiti sul tavolo, contro tutte le convenzioni!

 

Perdonatemi se ho un po’ “giocato” sul tema della solitudine. L'ho fatto prendendo spunto da una situazione frequente anche se marginale al problema, ben consapevole però di quanta sofferenza porti l’isolamento in molti momenti della vita, ad esempio in seguito ad una malattia, una depressione, un lutto.

Le pareti di casa sembrano diventare una prigione, ci manca un interlocutore con il quale instaurare un dialogo consolatorio e le nostre capacità interiori non sembrano in grado di rispondere alle aspettative. Qui vorrei passare la penna agli amici anche perché credo che la funzione di questo blog sia quella di raccogliere una coralità di voci che possano supportarsi vicendevolmente.

 

Voi che ne pensate? VI aspettiamo con una vostra riflessione.

 

Alla prossima puntata, dunque, sul tema della solitudine. 

 

Ettore

In un recente incontro tra gli amici del blog è emerso quanto diffuso sia questo sentimento e quanto pudore lo racchiuda.

Dichiarare di soffrire la solitudine sembra una forma di debolezza, un modo di non essere adeguati al contesto sociale, una denuncia di mancanza di risorse interiori. La confessione di un partecipante è stata invece accolta da tutti in forma liberatoria, quasi si fosse rotto un tabù. Voci concordi si sono unite a quell'intervento, sottolineando momenti concreti nei quali la solitudine è una cattiva compagnia.

 

Sicuramente, tra i possibili momenti di disagio, notiamo una sensazione di estraneità che ci prende quando mangiamo da soli in mezzo a muti sconosciuti.

Qualcuno ha scritto che mangiare da soli è qualcosa di umiliante, ma è anche eroico se pensiamo che va contro alla ritualità sociale che in tutti tempi ha associato al cibo i maggiori eventi della nostra vita, dalle nozze ai festeggiamenti delle varie ricorrenze.

Così anche un break lunch consumato senza interlocutori può diventare un momento di sofferenza nell’isolamento.

Dovremmo, invece, ribaltare la situazione: mangiare da soli non è un'umiliazione o una sconfitta, ma un momento di vittoria della nostra individualità che rifugge dal chiacchiericcio banale e pettegolo di un commensale non sempre gradito.

Quando mangiamo da soli siamo liberi anche in modo ribaldesco nei confronti degli altri e – pensate – possiamo anche mettere i gomiti sul tavolo, contro tutte le convenzioni!

 

Perdonatemi se ho un po’ “giocato” sul tema della solitudine. L'ho fatto prendendo spunto da una situazione frequente anche se marginale al problema, ben consapevole però di quanta sofferenza porti l’isolamento in molti momenti della vita, ad esempio in seguito ad una malattia, una depressione, un lutto.

Le pareti di casa sembrano diventare una prigione, ci manca un interlocutore con il quale instaurare un dialogo consolatorio e le nostre capacità interiori non sembrano in grado di rispondere alle aspettative. Qui vorrei passare la penna agli amici anche perché credo che la funzione di questo blog sia quella di raccogliere una coralità di voci che possano supportarsi vicendevolmente.

 

Voi che ne pensate? VI aspettiamo con una vostra riflessione.

 

Alla prossima puntata, dunque, sul tema della solitudine. 

 

Ettore

Commenti: 6
  • #6

    Roberto (venerdì, 29 gennaio 2016 13:18)

    Molte volte mi sento solo, soprattutto nei week end o durante le festività. Penso che quando sento la solitudine è perché ho perso la consapevolezza. Anche se vivo solo, se sono single, non sono solo. Ci sono i miei amici e conoscenti, mio padre e mia madre, Alice e Beatrice, le mie due figlie e c'è tutto quello che guardando dalla finestra vedo. Posso uscire e andargli incontro, magari abbracciare un albero o sdraiarmi sull'erba, sentirmi parte del mondo di cui faccio parte. Purtroppo questa consapevolezza molte volte la perdo, quindi paura, tristezza, depressione.

  • #5

    Livia (martedì, 01 dicembre 2015 18:40)

    La parola solitudine non ha mai un bel significato per me. Anzi direi senza esitazione che è una parola angosciosa. Eppure a volte si sceglie di stare soli o si sta soli volentieri. Ma forse allora non si chiama solitudine, ma autonomia.
    E poi sono con Antonio: gli altri - quando ci vedono - sono uno sguardo esterno utile e favorevole. E sono anche dei bei contenitori di affetto, che da qualche parte dovremo pure sfogarlo!

  • #4

    Camilla (venerdì, 27 novembre 2015 12:05)

    Bellissimo Commento, Andreina. L'ho riletto più volte, e mi colpito come spieghi la solitudine attraverso un antico Mito: solo nel Nulla si ritrova se stessi.
    Grazie per la condivisione

  • #3

    Andreina (giovedì, 26 novembre 2015 11:51)

    Non so più dove ho letto un antico mito cinese che mi ha colpita e che diceva pressapoco così.

    L' imperatore Giallo durante un viaggio perse la sua splendida perla. Ordinò alla Ragione di trovarla, ma non ottenne nulla. Chiese allora alla Magia, anche sta volta niente. Ugualmente si rivolse alla Potenza Suprema: non trovò la perla.
    Infine chiese al Nulla e il Nulla gliela rese.

    Abbiamo molta paura di restare soli convinti di trovare nella solitudine chissà quali mostri o nemici interiori o di non trovare niente.
    In realtà è il Nulla l' unico a restituirci la perla. Nella solitudine possiamo avere un opportunità per " sentirci", per trovare noi stessi, la perla che siamo e che spesso non vediamo o che non abbiamo consapevolezza di essere perché fusi e confusi con i desideri e i condizionamenti degli eventi e degli altri.

    Madre Teresa di Calcutta diceva di far sentire a tutti gli amici, alle persone che incontri che c' è qualcosa di grande in ognuno di loro, di guardare al lato bello di ogni cosa e di lottare perché l' ottimismo diventi realtà.
    Nel silenzio troviamo risorse e capacità solo nostre. Poi potremo condividerle e appartenere gli uni agli altri.

  • #2

    Cristina g (mercoledì, 25 novembre 2015 23:15)


    Grazie per il bel post
    Per quanto riguarda me se devo parlare con il nemico preferirei non farlo a tavola : )

  • #1

    Antonio (domenica, 22 novembre 2015 19:52)

    Riuscire a mangiare (e vivere) anche con chi ci dà più fastidio (senza farsi venire però l'ulcera e mantenendo comunque la nostra individualità) significa avere imparato (lo dico come un obiettivo da raggiungere e non perché l'abbia raggiunto) ad "aggiungere un posto a tavola" anche per il peggior nemico (non per pacifismo retorico o socialità finta; se gliele devi cantare, gliele canti lo stesso) perché gli si dà la possibilità di esprimere qualcosa di buono che (mi auguro) possa avere. Ma soprattutto perché, attraverso di lui, si riconoscono limiti e difetti che possiamo avere anche noi (e questo è, secondo me, ciò che ci dà veramente fastidio dal confronto con gli altri: ma se non lo fai, non puoi sapere se li hai oppure no). Ovviamente ci sono dei limiti di umana tollerabilità: difficilmente riuscirei a bere anche solo un caffè con un Renzi, un Berlusconi, un Mario Monti... (non per le loro idee politiche ma per la loro attitudine al convivio)