Un mandala in salotto

Nonna Berty
Nonna Berty

La mia nonna materna si chiamava Berty e dai primi di ottobre scorso il suo corpo non è più in questo mondo.

Il suo nome vero - che non aveva la ipsilon - era lungo e altisonante: si chiamava Giustalberta dall'unione di Giusto e Alberto che erano i nomi di due uomini importanti della sua famiglia.

La nonna era un po' come il suo nome: seria, piemontese, legata ad antiche etichette; e un po' era come il soprannome che si era scelta: moderna, anglofila, civettuola.


Da bambina come tutti gli altri anch'io notavo le cose notevoli e la nonna aveva delle unghie notevoli: lunghe, rosse, laccate, dure, perfette. Io avevo escogitato una strategia, quella di farmi raccontare sempre la favola della lepre e della tartaruga. Non è inusuale che da piccoli ci si faccia raccontare la stessa storia più e più volte, così la nonna non sapeva che io avevo scelto quella per un motivo ben preciso: quando la lepre era già schizzata a tutta velocità verso il traguardo per poi perdersi cercando la scorciatoia e insomma stava facendo la sua figuraccia, la nonna continuando a raccontare mimava la tartaruga (la vincitrice, l'eroe gentile) che cammina e raggiunge il traguardo piano piano ma inesorabilmente. Le sue splendide unghiute mani diventavano le zampe della tartaruga e camminavano sopra il mio braccio, che io tenevo fermo immobile per sentire quelle unghie meravigliose appoggiarsi con grazia e decisione nella mia carne. Come un grattino, come una carezza, come un pungolo. Il prologo fisico di una relazione che passata la mia infanzia diventerà solo intellettuale, come si conviene ai salotti borghesi.


Quando ero un'adolescente ero talmente arrabbiata e impaurita dalla mia rabbia che in tutti i modi cercavo di contenerla sostituendole sciatteria e disinteresse. Ma prima o poi essa esplodeva in certe mie orribili sfuriate, specialmente in casa. Per il resto del tempo, avviluppata com'ero nella mia apatia, gli adulti cercavano di pungolarmi con osservazioni, consigli, imposizioni, sgridate. Il fastidio che provavo... io lo ricordo come se fosse adesso. Oggi però ne colgo l'elemento più irritante: la prevedibilità. "Guarda, le spuntano le tettine!", oppure "Quella maglietta t'ingrossa, ti sta da cani", e anche: "Voi giovani fate tanto i comunisti a parole, ma non sapete condividere un bel niente".

La nonna Berty invece quando mi pungolava lo faceva con eleganza, con dolcezza decisa buttava lì che quel tal colore mi faceva sembrare verdognola, oppure che avrei fatto meglio a scegliermi un uomo del mio stesso livello culturale e che dovevo rispettare mia madre anche se non la capivamo. Io non ero sempre d'accordo, ma la rispettavo perché era un'interlocutrice presente: sapeva sempre che stava parlando a me in particolare.


La nonna temeva più di tutto di diventare una noiosa vecchia che ripete sempre le stesse cose. Mi fece giurare da piccola che se mai fosse successo glielo avrei fatto notare. Ma poi ci è riuscita con le proprie forze: non è mai invecchiata nello spirito ed è solo diventata più saggia. Da giovane poteva anche essere feroce, a volte le sue uscite sibilavano fuori da un contenitore rimasto chiuso troppo a lungo. Oppure "le sparava grosse" (l'espressione è sua), dicendo cose che non pensava veramente o sulle quali un giorno avrebbe rivisto le sue posizioni. Aveva poi imparato a sapere sempre, anche quando partiva alla carica, di poter essere nel torto. E soprattutto, la nonna aveva per le persone un'attenzione da romanziere, con cui teneva il conto di tutti i successi, le delusioni, i matrimoni e i viaggi, le tragedie e le elaborazioni di esse. Le vicende e le persone protagoniste le interessavano primariamente per evolvere e migliorare sé stessa. Andando avanti con gli anni osservava e registrava con pudore (era timida, anche se ottimista) ma inesorabilmente. Carpiva i resoconti e gli sfoghi dalla sua postazione tra il tè e il divano e le bastava averli ascoltati una volta per ricordarsene per sempre, così da poterne dipingere un mandala ideale pieno di curve e colori da perfezionare, tenere a portata di mano e infine ridisciogliere nel flusso incessante degli eventi.  

 

Livia

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Commenti: 1
  • #1

    Ettore (martedì, 31 marzo 2015 11:53)

    "Il bel rapporto con nonna Berty"
    Livia ha scritto un bel pezzo che io chiamerei più appropriatamente “testimonianza” del rapporto con nonna Berty che è stata una interlocutrice attenta dei suoi timori giovanili, delle inesperienze e che l’ha guidata con saggezza e discrezione negli anni difficili dell’adolescenza.
    Una guida che non viene da una autorevolezza genitoriale, ma dalla confidenza e penso anche dalla complicità instauratasi tra nonna e nipote.
    Gli incontri vengono descritti in una cornice “d’antan” così come piaceva alle precedenti generazioni con quel minimo formalismo che non è d’impaccio, ma anzi aiuta a far comprendere la necessaria differenza di status tra gli interlocutori.
    Nonna Berty riceveva in salotto davanti ad una tradizionale tazza di thè e mi immagino la sua signorile compostezza, l’eleganza sobria e di gusto, il tono pacato. Anch’io avevo un nonno-confidente che andavo a trovare nella sua casa di via Cappuccio, una casa tanto vasta e ingombra di oggetti d’arte che un amico che un giorno mi accompagnò, guardandosi intorno disse “ma qui siamo nel castello di Fratta”, fresco evidentemente della lettura di Ippolito Nievo.
    Anche il nonno aveva uncomportamento formale. Mi riceveva vestito con giacca e cravatta e prendevamo posto su due “tronetti” ed il colloquio sembrava quasi un confessionale. Era in effetti una forma di confessione
    laica nella quale esponevo le mie perplessità sia d’ordine scolastico che di relazioni con compagni e genitori, ricevendone sempre una risposta appropriata e tranquillizzante.
    Recentemente Papa Francesco con una di quelle sue prediche a braccio che tanto urtano i tradizionalisti, ma che hanno il pregio di arrivare alla comprensione del problema ha parlato dell’abbandono delle persone anziane, respinte dalla società in quanto non più produttive di reddito
    e, nel suo linguaggio, ha parlato di “peccato grave di abbandono”.
    Io aggiungerei di peggio perché il nocumento non viene solo agli anziani estraniati dalla vita familiare e reclusi in qualche ospizio, ma è una autentica perdita che subiscono i giovani privandosi dell’esperienza vissuta, della capacità di mediazione che possono mettere in atto nella vita familiare, della rimozione di tradizioni e ricordi dei quali gli anziani sono i depositari.
    Aggiungo che la vicinanza delle generazioni fa bene ad entrambi: i giovani hanno una spalla su cui poter contare e i vecchi hanno quel ruolo di “pater familias” che li gratifica di stima e di interesse,aiutandoli ad invecchiare bene.